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ALCUNI DANZANO PER RICORDARE (TERZA PARTE) segue dalla SECONDA PARTE

 

Milano, 8 gennaio 1945

 

I ragazzi erano bruciati. Aveva i documenti. Il timbro a secco della Wehrmacht piegava le fotografie.

   Teneva d’occhio la sala. Un banco a L nell'angolo e le botti con la spillatrice. Tre avventori al bancone. Tavoli quadrati. Dodici persone sedute.

   Nessuno lo stava guardando.

   I ragazzi erano bruciati. Erano stati riconosciuti. Identificati. Ugo accarezzò la copia ripiegata del “Corriere della Sera”. Lo spessore si notava appena.

   Un paradosso. I fascisti conoscevano i loro veri nomi. Lui li conosceva solo come Santo e Mombello. Così come per loro lui era Ugo, non Pino.

   Accarezzò il “Corriere”. I titoli erano tutti in stile Achtung Banditen!!! Il figlio dell’oste buttò ceppi nella stufa.

   Erano in ritardo di un minuto. A cinque se ne sarebbe andato.

   Quattro avventori al banco. Nove ai tavoli. Nessuno lo sta guardando.

   Dietro di lui c’era l’uscita di servizio. Le vetrate d’ingresso erano velate di condensa. Cristo. Aveva la visuale offuscata sulla strada.

   La P38 l’aveva fregata a un tedesco ubriaco. Pino distese la gamba per evitare bozzi strani. Anche ipotizzando un’erezione, la tacca del mirino era difficile da giustificare.

   Ecco com’è entrato nella Resistenza:

   Sua sorella è la segretaria del capufficio della Molacciaio, una fabbrica. L’uomo si chiama Zanutto. È il responsabile politico del PCI per la zona.

   Zanutto combina un incontro di valutazione con Fontana. Fontana è un duro che ha fatto la scuola militare del partito a Mosca.

   Si incontrano in via San Dionigi. È, all’incirca, dove Pino è passato quando ha vinto la Brescia-Milano. Ma comunque.

   Fontana gli mette in tasca una bomba a mano e una rivoltella. Poi ciancia per un’ora. Se ti beccano con quella roba addosso, fucilazione sul posto. Fontana è pazzo. Pino ha paura ma non fa una piega.

   Fontana si riprende pistola e granata. Relaziona Zanutto: arruoliamolo, è un freddo. Bum: Ugo, comandante della 114ma Garibaldi.

   Achtung Banditen!!!

   Fanno un tot di disarmi. In cinque o sei compagni a pistole spianate nelle garitte fasciste. I militi mollano subito: prego, tenete.

   E per chi devo morire? Per il pelatone? Baffetto? Vaffanculo. La fine è vicina, Kameraden!

   Pino scollò un dito dal bicchiere. L’oste accorse a riempirglielo. Aveva buttato il vino in un vaso di fiori. Doveva essere vigile.

   Sei al bancone. Dieci seduti. Il figlio dell’oste disegnò una faccina sulla condensa del vetro.

   Tre minuti. A cinque se ne doveva andare.

   Santo e Mombello entrarono nel locale. Un incrocio di sguardi per scusarsi del ritardo.

   Sedettero. Mombello teneva d’occhio lo specchio a parete che rifletteva l’ingresso. Santo accese una sigaretta. Nel gesto la giacca si sollevò svelando le guancette della rivoltella che sbucava dalla cintura.

   Pino aprì il giornale. Documenti e soldi scivolarono a V verso i rispettivi destinatari.

   Santo espirò il fumo. «Dove?»

   «Una camionetta vicino al macello, domani mattina.»

   «E dopo dove?»

   Pino alzò le sopracciglia, non aveva accesso a quelle informazioni. «In montagna, penso.»

   Mombello annuì. Santo annuì e tirò su col naso.

   La porta d’ingresso si aperse. Pino sentì fremere l’orecchio. Zoppicando entrò Pagani, un compagno. Santo lo salutò.

   Pino estrasse la P38. Pagani aveva le sopracciglia smerigliate da cicatrici recenti e un paio di cuciture sulla guancia.

   La voce: Pagani era stato beccato due giorni prima dai fascisti ed era pedinato. I ragazzi ancora non lo sapevano.

   Il tedesco buttò a terra Pagani con una spallata. La porta si spalancò. Rovesciarono i tavoli. La raffica di MP40 sbriciolò una fila di sedie.

   L’uscita sul retro. Scavalcarono la cancellata. Senza parole: via, tre direzioni diverse.

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   Pino correva lungo via Tacito. Gli ululati dei cani e le grida in tedesco lo inseguivano. La gente cambiava strada per non immischiarsi.

   Scattava. Annaspava. Il vento di gennaio gli congelò il sudore addosso.

   I casamenti popolari diradarono, lasciando posto agli orti che si accalcavano contro la ferrovia. S’infilò nel terzo sulla destra. Un uomo lacero stava zappando. Pino mise l’indice di traverso sulle labbra e si nascose dietro a una catasta di legno.

   Il freddo gli entrò nel sangue trasformandolo in ghiaccio. Sentiva il cuore battere dietro le ginocchia piegate.

   Le urla in tedesco. Un fascista tradusse. «Avete visto un uomo scappare?»

   «N-no,» bisbigliò il contadino.

   «Ne siete certo?»

   «Sì.»

   Pino seguì con lo sguardo le ombre sulla strada. I fucili mitragliatori a spallarm formavano pinnacoli. Le uniformi grigie e verdastre sciamarono verso la campagna, poi rifluirono in via Tacito.

   Da dietro la catasta Pino poteva percepire il terrore del contadino, come una vibrazione umorale che gli si infrangeva contro. Quando la ronda fu passata, uscì dal nascondiglio e sbirciò oltre lo steccato. I miliziani fascisti avevano messo al muro il padrone della mescita. L’uomo faceva segno di no a tutte le domande. Due ragazzotti della Wehrmacht lo massacrarono coi calci dei fucili.

   Il contadino guardava sconvolto. Pino scappò prima che gli prendesse un attacco di panico e si mettesse a urlare.

   La recinzione: si arrampicò. In fondo a un pendio c’erano i binari di movimentazione che attraversavano gli stabilimenti della vecchia Fonderia Milanese e si perdevano fra i campi. Due stronzi della Milizia presidiavano uno scambio.

   Tornò indietro. Il contadino era verde. Provò a sorridergli e scavalcò la staccionata che divideva il terreno dall’orto successivo.

   Il rombo di una camionetta lo spinse ventre a terra. Fra i fagiolini che si arrampicavano su un graticcio vide i fascisti sparare colpi in aria.

   Resta calmo. Giocano sui nervi.

   La camionetta sollevò getti di fango e schizzò via. Pino lasciò gli orti e si calò nella roggia a fianco, quella che fungeva da fogna, incassata nel terreno di un paio di metri.

   Trascinava lentamente i piedi nella melma per non sciabordare. Il canale era ampio circa tre metri. Stronzi umani e macchie oleose gli si attaccarono ai pantaloni. Scivolava, immerso fino al bacino. La P38 doveva essersi sputtanata.

   Era lucido, ma il muscolo zigomatico destro continuava a contrarsi. Mano a mano che proseguiva, la roggia divenne più profonda. Inciampò in un ramo e finì sotto. Riemerse, sputò l’acqua salata. Il profilo del portellone era disegnato dai fiotti d’acqua che penetravano. Niente compartimenti a tenuta stagna sulla “Littorio”. I tre cannoni di prua spararono. La corazzata vibrò.

   Fece cenno ai marinai. «Appoggiate il barellabile su quei bidoni.»

   Avanzò a fatica con l’acqua alle ginocchia. Guardò attraverso l’interstizio. La parete d’acciaio era squarciata. Entrando, il siluro aveva fuso la murata, ripiegandone lembi verso l’interno. Il mare rovesciava una cascata nella sala macchine. I motori emanavano fumo e odore d’olio. Un polpo finì sul metallo incandescente e sfrigolò.

   Si voltò verso i due marinai. Li sorprese fuori di sé dalla paura.

   Era sergente, il più alto in grado. Ordinò: «Immergete il manicotto nell’acqua e accendete il barellabile.»

   «Due missili a p-prora e u-uno a poppa… non possia…» balbettò un marinaio.

   «Immergetelo e andiamocene.»

   Una follia. Era inutile. Tempo dieci minuti e anche quel locale sarebbe stato allagato.

   Ci fu un cigolio fragoroso, sembrava il lamento di un animale. La nave si inclinò. Si aggrapparono alle tubature.

   «Via.»

   I marinai non se lo fecero ripetere. Pino li seguì sulla scaletta, mentre la pompa del barellabile cadeva dai bidoni e finiva nell’acqua.

   Si ritrovò a scalare il pavimento di un corridoio a quattro zampe. L’acqua lo percorreva come un torrente nel suo letto. La “Littorio” continuava a latrare e piegarsi. Si stava impennando come un cavallo imbizzarrito.

   Cadde a terra, graffiò l’acciaio, si rimise in piedi. I bossoli che rotolavano lo fecero incespicare ancora. Calpestò un braccio umano e respinse un rigurgito dall’esofago.

   Un’onda di mare arrossato dal sangue girò l’angolo e lo investì. Si schiaffeggiò per ripulirsi il viso come se fosse olio bollente. Poi vide un libro galleggiare e lo raccolse, in trance. Era Furore di John Steinbeck.

   La “Littorio” affondava. Pino stringeva Furore tra le mani. Stavano morendo circa seicento uomini.

   La nave latrò e si inclinò. Pino finì sott’acqua. Riemerse e dovette lottare per non vomitare. Soffiò i liquami dalle narici. Si schiaffeggiò per ripulirsi il viso. La roggia scorreva placida. Sentì i cani abbaiare in lontananza.

   Percorse il canale della fogna per un chilometro. Ormai spingeva sulle punte per tenere la bocca fuori.

   Non aveva mai provato la tortura e non aveva la polvere di cianuro. Avrebbe potuto parlare, se l’avessero torturato.

   I cani abbaiarono. Erano vicini. Pino si issò su una sponda e cominciò a sbattere i piedi nell’acqua per farsi individuare. Il freddo gli percuoteva il corpo di brividi. Estrasse la P38 e la puntò sulla riva opposta. Avrebbero sparato all’istante.

   Il bracco fece capolino fra le canne che ondeggiavano al vento. Lo guardò dall’alto verso il basso. Pino ebbe una contrazione e tirò il grilletto. La P38 fece: ptiu. Il bracco soffiò dal naso e sloggiò.

   Si arrampicò aggrappandosi agli arbusti. Milano era lontana. Intorno aveva solo campi, il puntino cremisi dell’Abbazia di Chiaravalle e il bracco che girovagava col naso nell’erba.

   Piombò di schiena sul letto di canne. L’aria si gonfiò piegando l’erba e gli sputò polvere di ghiaccio in faccia. Gli steli fischiavano con voce stridula. Un coleottero scansò rametti e masse di fango secco con le tenaglie, le sue zampette trafiggevano il terriccio, la brezza lo urtava, lo faceva rotolare, gli impediva di avanzare in linea retta. Poi le zampe uncinarono il tessuto umido, l’odore di feci lo attirò. Così, col mento affondato nel petto, Pino osservava il coleottero procedere a scatti sulla sua pancia e spiccare nero, con la schiena lucida che rifletteva il sole. Uno stormo di uccelli oscurò il cielo, sottile velo di tulle agitato dal vento. Ad ogni battito d’ali i raggi trapassavano lo stormo e piombavano a terra come dita di pianista che tempestano la tastiera.

   Fu in quel momento che il coleottero se ne andò.

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