Ivan Brentari
9/9/2016
GENERAL ELECTRIC
Milano non è solo stilisti, farine biologiche macinate a pietra, centrifughe di carote, architettini & deisgnerini, modelline annoiate, aperitivi bio, apericena, piste ciclabili mooolto cool, gente con l'uccello in mano davanti a La stanza del figlio di Nanni Moretti, gente con l'abbronzatura arancione, gente che dice «Taaaac», donne inacidite con le labbra sottili, gente che dice «Top!», gente che dice «Adoro!», intolleranti e intollerabili, gente che «si indigna» con lo smartphone in mano, persone in camicia total white just like Beppe and Matteo style, conformisti e conformati, quella che, insomma, parafrasando qualcuno, possiamo definire «l'Internazionale dei carini».
A Milano ci sono anche le fabbriche. Magari poche, ma ci sono. Ve ne segnalo una: la General Electric. Se abitate a Milano, prendete la metro rossa, scendete a Sesto Marelli e fate un centinaio di metri dentro a via Edison. Ecco, siete arrivati. (Ai precisetti dico di non rompere: ok, siamo a Sesto San Giovanni ma, per Dio, se si sputa da davanti l'ingresso della GE si prende in pieno la carreggiata di viale Monza).
In questi giorni sta riprendendo, dopo la pausa estiva, proprio la grande lotta dei lavoratori della General Electric (ovvero ex-Alstom Power, ovvero ex Ercole Marelli). Si tratta dell'ultima grande fabbrica rimasta a Sesto; l'ultimo gioiello di un tesoro industriale che non c'è più.
Qui però i sentimentalismi non c'entrano un cazzo.
Cos'è successo? Qualche tempo fa General Electric, multinazionale americana il cui slogan è «immagination at work», ha acquistato la Alstom Power. La Alstom Power, perlomeno nello stabilimento di Sesto (250 operai), produceva rotori per le centrali elettriche. Tenete presente che nessuna altra fabbrica in Italia è in grado di produrre la stessa tecnologia. Nessuna. Ora, General Electric si è beccata la tecnologia d'avanguardia per fare questi rotori e ha detto che a breve chiuderà lo stabilimento per portarsi via i macchinari dove produrre costa meno in termini di salari. Un giochino già visto ma non per questo meno sporco.
Fortunatamente gli operai della GE - un paio li conosco anche personalmente - non sono esattamente delle fighette. Stanno resistendo.
Alcuni mesi addietro ho partecipato al presidio davanti alla fabbrica, che ho provveduto a finanziare pagando di tasca mia ben due panini con la salamella. Sulla lista del menu niente centrifughe di carote. Una vera disdetta.
Nel frattempo, comunque, le cose si sono evolute da quel presidio. Ci sono state delle trattative, delle mobilitazioni, le istituzioni si sono svegliate, ma il cammino è ancora lungo e non si sa dove porterà.
Come dicevo, il sentimentalismo non c'entra. Bisogna uscire dalla logica paternalistica dei lacrimoni e della «giusta mercede». Qui c'è un prodotto di eccellenza costruito in Italia che domani potrebbe non esserci più. Chiamatelo come vi pare: economia, prestigio nazionale. Ci sono le vite di 250 persone, più le rispettive famiglie, sotto le cui chiappe qualcuno ha messo una bomba ad orologeria. E questo, semplicemente, non è giusto.
Sarebbe bello che gli intellettuali milanesi, così pronti a salire sulle barricate per i diritti che tirano di più davanti al Pubblico, quelli più alla moda, manifestassero la propria vicinanza a questi lavoratori. Sarebbe bello che scrivessero di queste lotte, che ne favorissero la conoscenza, che facessero interventi sui giornali o dove possono.
Io, ovviamente, non sono un intellettuale (e mi va bene così, devo dire), però, per quel poco che conta, ci tengo a far arrivare agli operai della GE di Sesto la mia solidarietà, che non basta, ma che è un primo passo.