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25/5/2020

MAPPARE LE NUVOLE (SECONDA PARTE)

Continua dalla PRIMA PARTE

 

Il labirinto dei fauni

Si è molto parlato del provvedimento di lockdown, il confinamento sociale: fondamentale/inutile/troppo restrittivo/troppo permissivo.

   Alcune testate hanno messo a confronto il modello italiano con quanto successo in altri paesi. Paesi con dimensioni diverse, numero di popolazione diverso, culture diverse, ricchezza diversa, infrastrutture diverse, sistemi sanitari diversi, legittimazione della classe politica (e la classe politica è quella che il lockdown lo ordina ai cittadini) diversa, abitudine al rispetto delle regole diversa. Soprattutto paesi che si trovavano in fasi dell’epidemia diverse. Un paese che conta 600 morti al giorno non si comporterà ragionevolmente come un paese che ne conta 50.

   Mi mancano elementi e capacità per giudicare nel dettaglio tecnico la scelta del lockdown e la sua efficacia in termini sanitari. Se c’erano alternative, nessuno in Italia le ha proposte.

   Nelle disposizioni anti-contagio ci sono stati picchi di idiozia stellari. La demonizzazione dei corridori, ad esempio. I droni alla Apocalypse Now sulle spiagge, ad esempio.

   Dubito tuttavia che il divieto di corsa servisse davvero a vietare la corsa. Lo scopo di tali fesserie era solo impressionare la popolazione e tenerla in casa. Punto. Una strategia grezza e funzionale. Gli stessi agenti ai posti di blocco spesso non conoscevano nemmeno il Dpcm che stavano applicando. Facevano da deterrente, nella speranza che il “tutti a casa” fosse la soluzione.

 

   In questo non ho visto, almeno nel breve periodo, un oscuro complotto regressivo per soffocare l’incontro delle persone, la socialità politica e quindi, in prospettiva, qualsiasi forma di dissidenza all’ordine costituito. Anche perché forme serie di dissidenza mi sembra manchino.

   Per certi versi è stato però anche peggio. I provvedimenti – caotici, contraddittori, paradossali – sono stati il segno di una perdita di controllo. Procedere a tentoni, sdoganare la decretazione à bite de chien, cioè a cazzo di cane. Segno della croce, e che Dio ce la mandi buona.

   Che poi qualcuno abbia accarezzato l’idea di una svolta autoritaria, può essere. Che fra le forze dell’ordine qualcuno abbia esagerato, è sicuro. Che sia uno scandalo che Regione Lombardia sia ricorsa ai dati delle compagnie telefoniche private per monitorare l’ubbidienza dei sudditi al divieto di spostamento, è chiaro. Che tutta questa roba potremmo trovarcela sul groppone fra qualche mese in forma di deficit democratico, a pandemia finita, è un rischio da monitorare.

   Mi pare più scandaloso che si siano stigmatizzati esclusivamente i comportamenti individuali, quando invece ci sono stati errori di gestione da parte di autorità regionali e nazionali. Errori che hanno ammazzato un sacco di gente, e su cui si sorvola, fischiettando.

   Oppure: due palle così col chiudersi in casa, e poi decine di migliaia di operai hanno continuato a lavorare in fabbrica. Spesso a stretto contatto: alcune produzioni non possono essere realizzate se i lavoratori non sono spalla a spalla.

   Per assicurare il prosieguo dell’attività agli industriali, sono state concesse deroghe a pioggia. Molte aziende hanno cambiato in corsa il codice ATECO, cioè la categoria della propria produzione, pur di rientrare fra quegli stabilimenti di interesse nazionale che potevano restare aperti.

   Fatturato batte salute 3 a 0.

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   Emblematico l’art. 16 del Dpcm 17 marzo 2020 n.18. Al comma 1 si stabilisce che quegli operai che lavorano a stretto contatto possono farlo con la sola protezione di una mascherina chirurgica. Il comma 2 prevede che le mascherine filtranti in dotazione ai lavoratori, vista la penuria, possano essere prive del marchio CE.

   Provvedimenti lunari considerando la mappa della diffusione del virus. Anche se una connessione diretta non è provata, è quasi sovrapponibile a quella delle aree industrializzate: il cappello nordico Piemonte/Lombardia/Veneto; la fascia industriale dell’Emilia-Romagna; le Marche della media industria.

   E mentre gli organi d’informazione sviolinavano su baristi, ristoratori, piccoli imprenditori in difficoltà e snobbavano gli operai, le aziende recuperavano una retorica patriottarda ridicola, utilizzando la pandemia per promuovere il proprio marchio. Spot a valanga sugli italiani che si uniscono nel momento del bisogno. I termini: “nazione”, “coraggio”, “sacrificio”, e via dicendo. Un approccio da Istituto Luce, immagini evocative alla Leni Riefenstahl.
   Le stesse aziende che poi, magari, obbligano i dipendenti a lavorare in smartworking sine die, perché hanno scoperto che la gente, da casa, lavora in media 3 ore di più. O perché con gli uffici chiusi tagli i costi di energia elettrica, pulizia, servizio di guardiania, collegamenti telefonici, abbonamenti internet. E, chiudendoli ognuno in casa sua, impedisci ai lavoratori di organizzarsi.
   Dai, diciamolo ancora, diciamolo bene: soldi battono salute 3 a 0.

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#MilanoNonSiChiude/No figa, oh, chiudiamola

La Capitale Economica. La Capitale Morale. A partire dai due aggettivi, e dalla sovrapposizione che molti ne fanno, già si potrebbe aprire un dibattito.

   Da anni sono convinto che Milano sia diventata l’alibi del paese. Se Milano scintilla, il resto può tranquillamente marcire e beccarsi qualche luccichio, di riflesso. Milano, da sola, vale una fetta consistente del PIL nazionale.

   Questo spiega la lentezza con cui le autorità hanno reagito ai primi contagi. Se chiudi la vetrina, chiudi tutta la bottega.

   Dagli aperitivi anti-Covid a favore di telecamere alla diffusione dell’epidemia il passo è stato breve. Capitale Morale/Capitale Virale. Milano e la Lombardia sono diventate l’epicentro del morbo.

   I dati sono imbarazzanti, anche considerando il via vai di pendolari, i turisti, la connessione internazionale, la presenza dell’industria, la qualità dell’aria. Come notava il mio amico Aldo Giannuli, col quale ho scritto un romanzo anni fa, non esiste un luogo sul pianeta Terra che abbia un così alto numero di morti a fronte dei contagiati (a parte forse il Belgio).

   Più di 15.000 vittime. Più di 80.000 contagiati nel momento in cui scrivo. Il 18% di chi si ammala, muore.

   Del resto i numeri sono bugiardi.

   Solo io, nella mia cerchia di relazioni, conosco 5 persone malate, confermate dal tampone faringeo. Più 6 persone con sintomi: non testate, ma probabilmente infette.

   I portavoce dei medici di base di Bergamo hanno dichiarato che, stando a un sondaggio fra i propri iscritti, il numero di malati in provincia si attesterebbe fra gli 80.000 e i 100.000. Dieci volte quello dei casi ufficiali. Parliamo di chi presenta sintomi. Andrebbero aggiunti gli asintomatici, che però non sono individuabili.

 

   Ho visto Milano stravolgere il proprio volto. Svuotarsi come mai mi era capitato di vedere. Lo dico al di là, e al di fuori, della retorica produttivista che fa da sottofondo a qualsiasi ragionamento riguardi questa città.

   Nei paesi della bergamasca, per settimane gli unici rumori che si sono sentiti oltre le finestre sbarrate sono stati campane a morto e sirene di ambulanze.

   Chi non vive qui credo non possa capire. Due mesi di picco epidemico ci hanno insegnato a odiare i diffusori di panico, ma a rispettare il sentimento di panico delle persone.

   Per i milanesi, per i lombardi, il Covid non è stato quella cosa successa laggiù. La sublimazione emotiva di un eccesso giornalistico. Quasi tutti abbiamo avuto un amico, un parente o un conoscente malato. Alcuni, purtroppo, hanno perso dei cari.

   Questa malattia è molto dolorosa. Ti fa morire da solo. Ti fa avere paura delle persone che ami.

   Diciotto per cento.

   La favolosa Sanità Lombarda ha toppato di brutto. E c’è una ragione.

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Il signor F, un prologo: Il Mausoleo Dentro

Non che avesse seguito tutte le fasi dei lavori – questo no – lo avrebbe sminuito, certo, se si fosse interessato alla posa delle putrelle, o all’acquisto dei  materiali edili, o all’assicurazione infortunistica degli operai, c’erano d’altronde figure preposte a vigilare su tali dettagli. A questi collaboratori, tuttavia, riservava attenzioni e pressioni tutte speciali, per quanto diluite nel tempo e calibrate in base ai suoi impegni istituzionali. Che non si dicesse che l’innalzamento del mausoleo lo toccasse marginalmente, così come marginalmente sono toccati gli uomini di Dio dalle miserie mondane. Dio lo si serve nella realtà e, nel servizio, è concesso, non sempre ma a volte, il godimento di una certa soddisfazione personale. Così inviava mail crittografate e otteneva dettagliate relazioni sul prosieguo dei lavori, e le notizie, del resto sempre ottime, che riceveva agghindavano le sue giornate e nobilitavano la sua responsabilità, una responsabilità che viveva sotto tre forme essenziali: bellezza, necessità, abitudine.

 

   Di notte, sognava il regno. Ne percorreva i confini frastagliati come una macchia di muffa, e quelle valli che si incastravano miracolosamente nel limite meridionale della Svizzera, e i corsi d’acqua nei quali s’immergeva e nuotava con i pesci, ma senza rivolgersi a loro, sebbene importanti tasselli del Creato, poiché più di tutto amava quei dieci milioni di uomini e donne che abitavano il regno. E li vedeva, fendendo le nuvole, fra picchiate e cabrate, agitarsi laggiù, percorrere le strade, condurre i commerci, stringere amicizie, o amori, e vedeva nascere i bambini e li benediceva, e tutto ciò gli appariva distante anni luce dalla prassi grigia della politica, o dalle parole velenose dei detrattori, ammesso che i detrattori esistessero, perché lui, occorre dirlo, non li concepiva né come soggetti politici, e ancor meno come presenze terrene. Qui bisogna aggiungere che è giusto ignorare i detrattori, poiché, a corredo di una missione politica, serve disporre di determinazione, anche se sarebbe più corretto dire di potere, e non si può cercare alibi nei nemici, e non ci si può sempre lamentare come persone che non hanno speranza, la qual cosa fu sostenuta da Santa Teresa di Lisieux, è bene non trafugare le frasi altrui.

 

   Alcuni avrebbero nominato gli appalti, sbagliando. Alcuni avrebbero nominato le commesse sanitarie, sbagliando. Alcuni avrebbero nominato gli amici, sbagliando.

   Perché non si soffermavano, invece, sui colori delle cravatte, dal momento che erano stati scelti da un consulente abile, lungimirante, illuminato? Eppure non se la sentiva di rimproverarli, in fondo l’esteriorità non plasma la persona. È la cura del corpo a definire l’amore verso Dio, in quanto manutenzione del dono divino. Lo diceva scherzando, anche se non scherzava, agli amici della Giunta: era in grado di sostenere tre minuti di plank, e due ore di corsa, e mezzora di bilancieri. Una tristezza immensa lo coglieva nello scorgere stupore, quando non disinteresse, verso tali esternazioni, e questo disprezzo verso i doni del Signore, e la cura d’essi che a tutti compete. Quindi pregava per gli amici, perché si ravvedessero e amassero la vita così come lui l’amava.

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   Di nascosto intanto studiava il progetto. Dispiegava i grandi papiri di carta millimetrata sul piumone del letto, e scendeva nei particolari. Non poté non notare che la pianta della costruzione ricordava le labbra di una figa dentro cui si piantava un cazzo mastodontico, ma subito si pentiva del pensiero, e il grattacielo/membro diventava un cero votivo, e le femminee escrescenze delle contrite paratie a protezione della fede.

   Ma il palazzo, anzi il grattacielo, anzi il mausoleo, gli cresceva dentro. Durante una seduta del Consiglio Regionale – ancora nella novecentesca sede del Pirellone – era scappato in bagno, suscitando l’alzarsi di un mormorio esterrefatto. Si era osservato nello specchio con timore, ma anche con eccitazione, prova ne era quell’erezione insufficiente ma tuttavia piacevole, e nel riflesso aveva visto pinnacoli metallici spuntargli dalla bocca, e poi pareti di vetro, e putrelle.

   Quell’assessore era entrato. Aveva dato un colpo imbarazzato di tosse e aveva detto: «Presidente, stai bene?». Aveva inghiottito il grattacielo, e sebbene la cima spingesse insistente sul palato gli aveva risposto che in effetti stava bene, e che riteneva di avere le doti morali, umane, fisiche, politiche e sessuali per diventare a breve Presidente del Consiglio. L’assessore l’aveva dunque squadrato con apprensione, aveva colto lo scintillio febbricitante sulla sua fronte, e gli occhi gialli, ma anche rossi, e aveva confermato: «Lo dicono tutti, presidente. Dopo di Lui ci sei tu».

   Ma quella condiscendenza, quella bonomia così posticcia e fuori luogo, a lui, al presidente della Regione Lombardia – diciamolo: al signor F – era parsa il segno della sua sconfitta e l’aveva reso triste.

 

   Nei mesi successivi portò a termine incontri politici, incontri con la cittadinanza, incontri riservati con dirigenti sanitari e imprenditori anche, tutta gente a conoscenza dell’adagio di Santa Teresa di Lisieux, ma non poté far nulla per quel bruciore di stomaco. Ovviamente sapeva che si trattava del grattacielo, anche se le radiografie lo smentivano. «È il grattacielo, dottore», disse al dottore. Lo stronzo lo assecondò; disse: «Certo, presidente».

   Così, il giorno dell’inaugurazione, vedere il grattacielo/mausoleo fuori di sé, ovvero proprio lì davanti ai suoi occhi, abbracciato da quelle labbra di vagina in cemento e vetro, istigato dunque a erigersi e svettare, lo tranquillizzò. Fu con baldanza che si avvicinò al nastro per il taglio, e accettò gli applausi, e benedisse gli assessori, le telecamere, e i dieci milioni di sudditi dietro esse. L’ingombro all’esofago era scomparso, e pure il bruciore dei succhi gastrici.

   Sorrise al pubblico, il pubblico sorrise a lui. Tagliò quindi il nastro. Allora lo stomaco cominciò a brontolare. Il presidente parlò per coprire il rumore, ma gli astanti sentivano, cazzo se sentivano, e addirittura alcuni assessori, cani, arretravano spaventati. Urlò loro contro, li chiamò cani e la bava che gli colava dalla bocca sporcò la cravatta. Il grattacielo forzò la chiostra dei denti, il corpo del presidente si aprì come la carta di una caramella, il grattacielo salì impetuoso verso il cielo mentre le telecamere venivano investite da cervella, polmoni, ossa e bolo di cibo.

Il Celeste Impero

Questa è una storia vera.

   Qualche anno fa ero in metropolitana. Di fianco a me si siede un signore massiccio: un’ombra di barba bianca sulle guance, il bomber smanicato gli sbuffa sui fianchi, la cerniera abbassata svela una cravatta colorata. Ha lo sguardo allucinato.

   Aspetta. Quasi non sembri tu, ma sei tu. Tu sei il signor F.

   L’ho riconosciuto e non glielo dico.

   Il signor F ha governato la Lombardia per quasi due decenni. Quando si siede vicino a me, qualche anno fa, sui sedili della M1, lo scandalo che metterà fine alla sua carriera politica è già arrivato. La condanna della magistratura ancora no.

   Il signor F è stato l’uomo forte lombardo per quasi vent’anni; per un certo periodo se ne parlò come del successore di Berlusconi. Personalmente, non mi è mai parso brillante. Tuttavia la vicinanza a un’associazione confessionale-imprenditoriale lo ha aiutato parecchio nella carriera politica.

   Quello che ho di fianco sembra un uomo malato.

   Gli guardo attraverso. Macchinalmente mi ritrovo a immaginare sordidi segreti che traspirano dalla sua pelle, che gli serpeggiano, neri, fuori da naso e orecchie, solo per il fatto che sto lì a guardarlo, a trenta centimetri da me.

   Invece no. Invece non traspira un cazzo. È solo un involucro d’uomo e nessuno, nel vagone, gli riconosce la gloria passata. Tutti lo ignorano.

   E così faccio io: continuo a leggere il libro, e succede che il signor F scompare, e credo che sia sceso a San Babila, ma non posso esserne sicuro.

   Un minuto dopo mi sono dimenticato di lui.

 

   Ho pensato molto al signor F, nei giorni della clausura e dell’infezione.

   Il signor F ha distrutto la Sanità pubblica lombarda in meno di quattro lustri. La salute è diventata un business, qui. Prendere un appuntamento col medico di base, invece, è diventato un’impresa. Si sono automatizzati i servizi senza curarsi dei casi specifici dei pazienti.

   Il signor F ha trasposto la sua ambizione sfrenata e magniloquente, il mausoleo che aveva dentro, nel modello sanitario. Ha applicato la propria struttura psicologica a un servizio essenziale per la comunità.

   Grandi ospedali. Grandi aziende sanitarie. Mausolei della Salute.

   La configurazione territoriale medica è stata smantellata. La Sanità privata è stata inondata di soldi. Salvo poi, nell’emergenza, defilarsi.

   Ciò ha causato molti morti.

   L’assistenza sanitaria diffusa, quindi domiciliare, che sarebbe stata fondamentale per contenere il contagio, non esiste più. Gli ospedali-mausoleo si sono trasformati in focolai. Il modello Hollywood si è sgonfiato davanti a un minuscolo virus.

   Mi è capitato di comporre – non per me – il fantasmatico numero della Regione per il Coronavirus. Quello che è ne seguito potrebbe essere un racconto di Kafka.

   Sintomi? Be’, sì, febbre da due setti… Ma difficoltà respiratorie? No, voglio dire, per il momento ancora non… Stia a casa 14 giorni. Ma sarebbe possibile fare un tampone? No. Ma quindi… Se fa fatica a respirare chiami l’ambulanza, arrivederci.

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   La mancanza di organizzazione, il fallimento reticolare, ha riguardato anche gli operatori sanitari, esposti a pericoli elevatissimi e, di fatto, lasciati da soli.

   Conosco personalmente una giovane infermiera che ha lavorato per settimane in una terapia intensiva Covid, e poi è stata trasferita in una terapia intensiva non-Covid. Nessuno le ha fatto il tampone per scoprire se si era contagiata in servizio. Ha incominciato ad assistere malati in condizioni critiche, quindi vulnerabili, senza le precauzioni della profilassi batteriologica, col rischio concreto di infettarli.

   Si sente, in questa vicenda, l’eco di quello che è successo nelle case di riposo. Una storia terribile, alle cui radici ci sono responsabilità da approfondire, ma evidenti. Materia, ormai, di rilevanza penale.

 

   Ospedali trasformati in bombe virali/Tamponi fantasma/Prevenzione zero/Dottori e infermieri come carne da cannone/Test a pagamento offerti da cliniche private/Chiare responsabilità istituzionali.

   Ancora oggi, che l’epidemia rallenta in tutta Italia, la Lombardia resta un caso anomalo di resistenza del virus, e la curva scende molto più lentamente.

   In un contesto del genere, le provvide autorità regionali a inizio maggio partoriscono un’idea geniale: fare causa alla Cina. È il ritorno del Virus Cinese. Il lieto fine dell’epidemia di Wuhan sta sbiadendo, la percezione pubblica dei cinesi è in picchiata, anche il presidente Trump ha tirato fuori la bambolina vudù dei Musi Gialli. Ma sì: proviamoci. Sì, dai: sviamo l’attenzione sul nemico esterno.

   Così tuteliamo il buon nome della Capitale Virale.

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