Ivan Brentari
13/7/2018
RIMOZIONE #1, PERCHÉ MILANO VA DOVE STA ANDANDO (PRIMA PARTE)
Sotto certi aspetti credo che Milano sia l’alibi dell’Italia. Del “sistema paese”, usando un’espressione ridicola.
Ultimamente ho scritto da qualche parte: «Milano, investita della responsabilità di essere non avanzata, ma sfoggio e simulacro di modernità, è destinata a essere meglio prima. In eterno».
Milano deve scintillare perché tutto il resto possa tranquillamente marcire.
Sì, il paese è quello che è. Sì, la corruzione e la mafia. Ma guarda Milano. C’è il bike sharing. Crolla il cavalcavia. Sì, ma guarda Milano. C’è l’esposizione interplanetaria dei nani da giardino.
Il Moderno e la sua esibizione architettonica sono diventati gli attori della “rinascita” ambrosiana. Grattacieli che vent’anni fa avremmo definito “americanate” sono spuntati come funghi, spesso sventrando quartieri popolari. Hanno aperto «spazi igienici nelle vecchie carni della città».
Parlavo tempo fa con Lella del Collettivo MetalMente. Per decenni ha vissuto in affitto all’Isola e recentemente ha dovuto sloggiare. Il prezzo del canone è schizzato alle stelle a causa dei nuovi edifici di Porta Nuova. Così non solo il panorama di un’area un tempo proletaria e abitata in parte da una criminalità romantica e sostanzialmente non aggressiva è stato sconvolto. Ma anche la composizione sociale del quartiere è stata alterata. «Pastorizzata». Chi ha meno mezzi economici è stato respinto verso zone più periferiche a colpi di rincari.
Un altro esempio: gli isolati dietro la stazione di Porta Genova. Dove c’erano le fabbriche ci sono i designers fighetti dello Spazio Base. Vestono abiti di demarcazione, laptop aperto e tazza fumante davanti, intenti a lavorare in un ambiente very cool. A poche decine di metri, l’Armani Silos. Più giù lungo via Tortona: case di ringhiera che furono popolari e oggi ospitano studi di architetti e fotografi di fashion. Affitti in orbita.
Milano è quella cosa lì e deve esserlo. Se ne deve parlare. Si deve parlare solo di quello.
Il problema non è la moda né il conformismo cialtrone dei media, rimasti ancora al clima post-Expo 2015. Così sviliremmo il problema.
C’è dietro un disegno politico ben individuato. Fa tutto parte di un’iconografia funzionale al potere che marginalizza le classi più basse per disinnescare il conflitto sociale.
Nell’immaginario, la città diventa il paradiso di una classe media diffusa, totalizzante, operosa e desiderosa di mostrarlo, che ha inglobato il resto in una pacifica e ineluttabile composizione.
Tutto ciò che non rientra nei parametri finisce sotto al tappeto, con un colpo di scopa. Non c’è. Anche se c’è.
Un processo di rimozione indotta.
Ciò che non c'è, non combatte. O perlomeno lo fa con più difficoltà. Trova meno sponde fuori da sé.
Lo scrivevamo con Wu Ming 2 e MetalMente in Meccanoscritto a proposito di come viene raccontato il mondo del lavoro: «È un’opera di maquillage. Far credere che la realtà del lavoro e gli operai non esistano più, e che, con loro, siano scomparsi anche i loro diritti, semplicemente non parlandone».
Ecco, lo stesso procedimento si applica, secondo me, agli spicchi popolari, proletari e sottoproletari di Milano. E ce ne sono molti. E sono tanto più miseri e abbandonati, quanto più i quartieri-vetrina sono sfavillanti.
Barcellona, città a cui sono molto legato e in cui ho vissuto, ha attraversato una fase simile dopo le Olimpiadi del ’92. In una lettera all’architetto Alberto Giorgio Cassani, Manuel Vázquez Montalbán, grande scrittore catalano, spiega: «Le città si trasformano in riferimenti per finalità dello splendore materiale e culturale quasi sempre coincidente con quella dell’egemonia politica ed economica». Anche se – aggiunge poi Montalbán – questo schema non può applicarsi sempre, a me sembra che si adatti bene alla situazione di Milano.
Proprio in quest’ottica Milano/Eventopoli si trasforma in simbolo. E proprio Porta Nuova, il «teatro profilattico per interpretare la farsa della modernità», diventa simbolo del simbolo. Il diamante da lustrare.
Piazza Gae Aulenti, piazza Alvar Aalto, via Castillia. Un’installazione d’arte concettuale su vasta scala, un render all’interno del quale non esistono luoghi di condivisione e incontro reale. O meglio, ci sono negozi, caffè letterari à la page, deliri fallici di vetro e metallo.
Ma qui non si può stare. Si può al massimo passare. Con uno scopo: consumare o, in alternativa, sorbire con gli occhi la propaganda architettonica del Moderno per poi portarne a casa i bacilli.
Ed è impressionante come sempre più spesso pubblicità, cinema commerciale o d’autore, soprattutto di registi non milanesi, utilizzino tale sfondo (ormai un brand) per le proprie storie. Anche se fra questi palazzi storie vere non ce ne sono. Perché non c’è nulla di vivo.
Intanto, gli anfratti popolari di Milano restano sostanzialmente non rappresentati. O vengono raccontati in maniera macchiettistica. Il che, se possibile, è peggio.
(Continua…)