Ivan Brentari
24/9/2020
THE MEYER METHOD: CITIZENS DI MEYER LEVIN
Well now everything dies, baby
That's a fact
But maybe everything that dies
Someday comes back.
(BRUCE SPRINGSTEEN, Atlantic City)
Le schiene
I filmati dell’epoca raccontano di un cielo terso. È il 30 maggio 1937, a Chicago.
Lo stabilimento della Republic Steel Corporation sorge al centro del quartiere di South Chicago, nel quadrante centro-meridionale della città. L’immenso appezzamento su cui torreggiano i capannoni della fonderia è lambito dalle acque del Calumet River, che poche decine di metri più a est si getta nel lago Michigan.
Centinaia di operai della fabbrica, con mogli e figli al seguito, stanno marciando di fianco al muro di cinta verso l’ingresso della Republic Steel. Sono in sciopero perché la direzione non ha firmato il contratto con i sindacati. Vogliono stabilire un picchetto e chiamare alla lotta i crumiri che, dentro all’impianto siderurgico, stanno ancora lavorando.
A due isolati dai cancelli, la polizia rinserra lo schieramento. Si odono delle misteriose esplosioni. Gli agenti sparano sulla folla che si disperde impazzita. I fotoreporter immortalano poliziotti nell’atto di manganellare i feriti o di trascinarli nei cellulari, i patrol wagons.
Diradandosi, la nube dei gas lacrimogeni rivela i corpi di dieci operai. I loro nomi sono: Hilding Anderson, Leo Francisco, Earl Handley, Joseph Rothmund, Alfred Causey, Sam Popovich, Kenneth Reed, Anthony Tagliori, Lee Tisdale, Otis Jones.
Su sette dei dieci cadaveri il coroner evidenzierà ferite da arma da fuoco alla schiena. Gli agenti hanno sparato alle spalle a uomini in fuga.
Earl Handley morirà di emorragia. I poliziotti lo hanno trascinato giù dalla macchina che lo stava trasportando in ospedale, per poi lasciarlo dissanguare. Destino simile per Lee Tisdale – nero, cinquant’anni – morto per mancanza di cure all’ospedale giudiziario di Bridewell. Popovich verrà identificato a fatica. I manganelli gli hanno letteralmente disintegrato il cranio.
Sono fatti che passano alla storia come il Memorial Day Massacre. Una nota grottesca: gli statunitensi consacrano il Memorial Day, l’ultimo lunedì di maggio, ai caduti delle loro guerre.
Due cuori, un petto
E Meyer Levin?
Il 30 maggio 1937, Meyer è un uomo di trentun anni. È giornalista dal 1923, ancora prima di laurearsi. Nel 1924, a nemmeno diciannove anni, ha seguito per il Chicago Daily News la vicenda di Leopold e Loeb, un terribile caso di cronaca nera che più avanti trasformerà nel suo romanzo di maggior successo internazionale, Compulsion. Ma è un’altra storia.
Meyer è figlio di una coppia di ebrei immigrati dall’est Europa in Illinois. È un americano-ebreo, o un ebreo-americano. Forse non lo sa nemmeno lui.
Vive le sue ascendenze in maniera contraddittoria. Nel 1925 – dopo la laurea, dopo Leopold e Loeb – parte per l’Europa alla ricerca delle proprie radici. Qui conosce Tereska Szwarc, la sua futura seconda moglie (si sposeranno nel 1948), che poi diventerà una scrittrice conosciuta come Tereska Torrès. Ma è la Palestina a chiamarlo. Proprio in Palestina per qualche tempo lavora per la Jewish Telegraphic Agency.
Poi torna negli USA. Poi torna in Palestina. Fatica a decidersi, fatica a capire. Americano-ebreo, ebreo-americano? Non lo sai.
Nel 1929 si aggrega al Kibbutz Yagar, vicino ad Haifa. Nello stesso periodo in America esce The reporter, il suo primo romanzo, ispirato all’esperienza di cronista. Una giornalista si riconosce in uno dei personaggi e non apprezza. Sotto la minaccia di una querela per diffamazione il libro viene ritirato.
Ma Meyer ha deciso, scriverà romanzi. Per farlo, torna negli Stati Uniti. Ha ventiquattro anni.
Pubblica Frankie and Johnnie (1930) e Yehuda (1931). Poi arriva The new bridge (1933), la storia di una famiglia indigente che subisce uno sfratto. Durante l’azione un bambino viene ucciso. Nella seconda parte del libro gli inquilini catturano gli agenti di polizia e li mettono a giudizio. Diventerà una struttura bipartita tipica delle storie di Levin. Misfatto/Ripristino della giustizia. Sarà lo stesso anche in Citizens e Compulsion.
Nel 1937, l’anno del massacro, viene dato alle stampe The old bunch, un romanzo di formazione mastodontico che segue le vite di una dozzina di ragazzi e ragazze ebrei di Chicago fra gli anni Venti e la metà dei Trenta. Come Meyer, devono capire cosa sono. Americani o ebrei.
E arriviamo alla Republic Steel, maggio ’37.
Cosa c’entra Meyer con gli operai? Niente. Certo, viene da una famiglia modesta, ma non esistono notizie biografiche che lo collochino dentro a una fabbrica. È solo un reporter e un romanziere.
Il suo problema però è l’ossessione che gli brucia dentro.
Quando qualcosa lo attira, deve saperne tutto. Per poi raccontarne TUTTO. È la sua compulsione. E la storia della Republic Steel lo interessa.
Nel marzo 1940, trentaquattro mesi dopo il massacro del Memorial Day, la Viking Press di New York pubblica Citizens.
Lo stato delle cose
Dalle carte del fondo Levin conservato presso l’Howard Gotlieb Archival Research Center della Boston University sappiamo che il titolo originario del romanzo era The way things are (Come stanno le cose).
Il protagonista è Mitch Wilner – americanizzazione di Moses Wilnowitz – un allergologo ebreo che compie ricerche sullo choc anafilattico. Mitch si ritrova per caso ad assistere al massacro degli operai e presta un primo soccorso. Da quel momento si troverà coinvolto sempre più negli eventi, passando dalla parte dei lavoratori e diventando il dottore del sindacato, The Union Doc. Fino a testimoniare a Washington davanti al Gottschalk Committee, la commissione d’inchiesta del Senato che deve indagare sulle responsabilità della polizia: la seconda metà del “metodo Levin”, quella del ripristino della giustizia.
Nella realtà la commissione si chiamava La Follette Committee, dal nome del senatore Robert M. La Follette Jr., e indagò effettivamente sul Memorial Day. Tutto il libro è una continua compenetrazione di verità e finzione verosimile. Fanno capolino, o vengono citati, numerosi personaggi reali, fra cui Franklin Delano Roosevelt, il predicatore filofascista Padre Coughlin, e il leader sindacale John L. Lewis, che una storica copertina di Time raffigurerà come un vulcano pronto a esplodere.
Il punto è questo: c’è stata la crisi del ’29; Roosevelt ha fatto il New Deal promuovendo una serie di leggi a favore dei lavoratori, come il Wagner Act; i lavoratori scioperano, il paese freme; si è diffusa la Red Scare, la paura dei comunisti; qualcuno comincia a guardare con simpatia alla Germania nazista e all’Italia fascista.
È la Grande Storia. Ed entra di schianto nella vita dei personaggi.
Levin cita spesso la Guerra di Spagna (1936-1939) come esempio lampante del conflitto: fascismo/libertà, industriali/lavoratori. Alla Spagna tiene molto, perché ci è stato davvero: sul fronte di Madrid, come corrispondente. E perché è il suo rimpianto politico di “rosso”: in The radical novel in the United States (1956) Walter B. Rideout lo definisce «all’epoca mezzo marxista, oggi sionista». Nella sua autobiografia In search (1950), Meyer scriverà: «Ho l’impressione di starmi scusando ancora un po’ per non essere rimasto a combattere in Spagna».
Non potendo andarci lui in Spagna, ci manda un personaggio. Qui sotto, il dialogo fra Mitch Wilner e l’operaio Emil [la traduzione è mia]:
«Ascolta, dottore, voglio chiederti una cosa. Sto bene?»
«Perchè? Ti senti bene, giusto? Ancora un po' di riposo...»
«See. Mi sento come nuovo. Ma voglio dire... è davvero così? Sono in forma come prima?»
«Qual è il problema? Vuoi sposarti o cose del genere? Stai bene. Solo non fare sforzi. E se intendi le donne...»
«È troppo tardi per darmi un consiglio per quello, doc», scherzò Emil fosco.
«Be’, allora cosa intendi? Tornare al lavoro?»
Emil scosse il capo lentamente. «Quelli non mi riprendono indietro.»
«Ma pensavo che la Tri-State avesse accettato...»
«Non questo ragazzo qua. Mi hanno impacchettato prima dello sciopero. Ho in ballo una vertenza col sindacato. Ma non stavo pensando a quello.»
«A cosa stavi pensando?»
«Pensavo, posso fare un viaggio?»
Un viaggio? Perché no, certo, avrebbe potuto fargli bene. Che genere di viaggio?
Emil fece un cenno col mento, verso la fabbrica. «Non ci si diverte a combattere quando non puoi rispondere al fuoco. Stavo pensando, magari posso andare e tirare un paio di schioppettate a questi tizi.»
Solo allora, Mitch afferrò. «Intendi la Spagna?». Ma a che scopo? Da quello che aveva sentito, non avevano bisogno di uomini laggiù. Avevano bisogno di cibo e munizioni. Di uomini ne avevano a sufficienza.
«Forse non hanno bisogno di me, doc. Ma hanno qualcosa che a me serve. Quello è un posto dove uno può rispondere al fuoco. Per come la vedo io, sono gli stessi figli di puttana bastardi contro di noi, là come qua.»
Meyer ha la passione – ma non è una passione, è un’ossessione – per i dettagli. Vuole illuminare ogni anfratto. Fa di Mitch (stessa iniziale di Meyer) il proprio alter ego. E sul dottor Mitch Wilner parla apertamente: «Non poteva spiegarlo. Non era interessato a fare il bene. Doveva semplicemente sapere tutto, tutto quello che c’era da sapere su una cosa, una volta che era iniziata».
Così Meyer/Mitch ci porta all’interno del C.I.O., il Congress of Industrial Organizations, un sindacato nato da poco, con una spiccata inclinazione di classe. I detrattori lo chiamavano il “Communists In Office”. Ci mostra le dinamiche fra le fazioni rivali all’interno dell’organizzazione. Ci fa conoscere un gruppuscolo di trotzkisti pronti a realizzare un attentato contro la fabbrica.
Ma tramite Mitch Wilner entriamo anche in una riunione delle Silver Shirts, organizzazione filonazista. Incontriamo membri del Bund, un movimento di estimatori del Reich. Scopriamo come siano finanziati dai grandi imprenditori.
Sulla macchina che porta Mitch verso l’audizione di Washington davanti al Gottschalk Committee ci siamo anche noi. Con lui attraversiamo Ironville, Canton, la contea di Mahoning. Il Midwest è in subbuglio: dopo il Memorial Day, nella realtà, si ebbero altri scontri mortali fra polizia e operai a Youngstown e Massillon, Ohio.
Ecco fiumi giallastri lungo i quali si incrostano le masse grigie delle fabbriche. Ecco le baracche degli slums per neri e bianchi poveri immerse nel fango. Ecco il candidato a sceriffo. È un membro delle Shirts. Promette alla cittadinanza abbiente la repressione degli scioperi.
I personaggi si rincorrono e moltiplicano a decine. Sbracciano fra le righe, a volte la corrente se li porta via, a volte riemergono cento pagine più tardi. Seguire la vicenda è impegnativo. Perché la storia è semplice, in fondo: Padroni vs Operai. Ma il tessuto umano che la compone è complesso e crea una pluralità di voci, quella che il cronista Meyer è abituato a vagliare per ragioni professionali.
For the present work, to the present writer
Recensendo Citizens, lo scrittore James Thomas Farrell sottolineò che Levin adoperava uno stile giornalistico e «lo sguardo dittatoriale dei personaggi» tipico del reporter abituato a sentire tutte le campane. Così il lettore non trovava lo sforzo di fantasia letteraria e «la vivida ricostruzione di personaggi ed eventi che uno si aspetta nelle pagine di un romanzo dichiaratamente realistico». Un miscuglio, diceva Farrell, di titoli di giornale ben agghindati. Troppa verità, poca letteratura.
La risposta di Meyer era già nella “nota sul metodo” in fondo a Citizens:
«Credo che gli scrittori contemporanei siano indirizzati a questo metodo dalla sensazione che le verità umane interiori circa i moventi delle azioni e le costrizioni che spingono ad esse possano essere trovate esaminando le esperienze della realtà. Utilizzando come materia solo eventi concreti e attestati, lo scrittore riduce la possibilità di giungere a false conclusioni. Non si pretende che questo metodo possa universalmente essere efficace, o anche solo che sia un approccio letterario preferenziale. Per il presente lavoro, al presente autore [a chi scrive, NdT], sembrava il metodo migliore».
Levin lavora su due direttrici: asciugare lo stile/dettagliare la storia. L’approccio documentaristico, iper-realistico di Meyer è un punto di forza. Soprattutto dimostra l’intenzione di rappresentare la realtà il più fedelmente possibile. Un obiettivo con cui qualsiasi scrittore, presto o tardi, si deve confrontare.
Durante la stesura del libro, Meyer ha sicuramente letto Furore (1939) di Steinbeck. Se Steinbeck aveva inframezzato alle vicissitudini della famiglia Joad degli splendidi capitoli “collettivi” in cui il soggetto era la massa degli Okies (da Oklahoma, appellativo riservato agli immigrati interni durante la Grande Depressione, qualcosa di simile al nostro “terroni”), Meyer fa il contrario. Se ne frega dell’astrazione che punta al significato universale. Usa il metodo scientifico del suo doppio Mitch Wilner, ma senza l’asepsi del medico. Mette le vite dei personaggi sotto al vetrino del microscopio e spezza la narrazione con dieci parabole laiche che seguono – uno alla volta, dalla culla alla Republic Steel – i dieci morti del 30 maggio, cambiandone i nomi e reinventandone le vite.
Diventiamo un migrante messicano, uno dei cosiddetti “wetback”, importato – o deportato – negli USA come crumiro. O un immigrato polacco che maneggia le braccia di una gru Hulett come fossero pinzette di orologiaio. O un operaio svedese tradito dal fratello. Sono tasselli umani e violenti del grande mosaico americano degli anni Trenta.
Così, l’approccio documentaristico diventa letteratura purissima.
Operaio non operaio
Ma allora, Citizens è un romanzo operaio o no?
Io credo di sì, anche se forse non ha senso chiederselo. È un romanzo operaio ed è molto di più.
Sicuramente Meyer Levin non era un operaio. Nonostante questo, con la sua mania e la sua ambizione è riuscito a ricreare il panorama materiale e psicologico del mondo operaio americano in quell’epoca.
Dedica pagine intere alla descrizione dei macchinari e dei processi produttivi, alla situazione delle Unions, alle condizioni e i desideri dei lavoratori e delle loro famiglie, alle tensioni interrazziali. Si percepisce un lavoro di immersione totale nel contesto, che annulla la sua distanza dalla classe operaia.
Io non credo a una letteratura operaia da pedigree, dove l’ortodossia della biografia operaia dell’autore conta più del contenuto. Rischia di diventare un operaismo esteriore che tradisce proprio lo spirito operaio. La classe operaia ha aspirazioni egemoniche, è un organismo aperto all’esterno e non settario. Ha la forza storica di accogliere racconti di sé stessa che vengono anche da fuori. Purché siano fatti bene. Diversamente si chiuderebbe in una bolla di purismo sbilenco e autoreferenziale che non le appartiene. L’intransigenza diventerebbe tradimento.
Dopodiché l’autonarrazione operaia resta fondamentale, se mira a rivolgersi a tutti. Io stesso, quando proposi alla FIOM di Milano di realizzare Meccanoscritto e ne ideai la struttura narrativa, pensavo a un libro in cui i lavoratori narravano sé stessi agli altri. Poi proposi a WM 2 di aggregarsi, e il Collettivo MetalMente infuse nell’opera un soffio vitale unico.
Ma un approccio non esclude l’altro, e Citizens lo dimostra.
Vaccino
Oggi del Memorial Day resta solo una scultura in metallo che si affaccia sui campi incolti, all’angolo fra la 117ma e Avenue O. L’ha realizzata Ed Blazak, un ex-dipendente della Republic Steel. Si compone di dieci canne d’acciaio che simboleggiano contemporaneamente le ciminiere dei dieci stabilimenti della zona, ora dimessi, e le dieci vittime.
Alla luce delle recenti proteste del movimento Black Lives Matter, dei crimini – ancora una volta – della polizia, e del clima da guerra civile negli Stati Uniti, rimane, quella sì, la domanda centrale del romanzo di Levin.
Questa: la contraddittoria democrazia americana è in grado di resistere alla tentazione autoritaria?
L’allergologo Mitch Wilner se lo chiede. Perché quelle simpatie per Hitler e Mussolini? Era in atto uno choc anafilattico di una parte della società come reazione all’avanzata degli operai? Come si poteva curare? E possiamo aggiungere: oggi sta succedendo la stessa cosa, ma con i neri al posto degli operai?
All’inizio ho pensato che i Citizens del titolo, i cittadini, fossero le dieci vittime. Il messaggio sembrava quindi banale: benché questi operai siano cittadini come tutti noi, la perfida polizia li ha uccisi e bla bla bla.
Poi ho capito che non era così.
Essendo l’unica parola sulla copertina, salta all’occhio ogni volta che la incontri nel testo. Meyer chiama citizens anche quelli che organizzano comitati contro lo sciopero. Anche i nazisti che si radunano alle conferenze delle Silver Shirts.
La parola cittadini è troppo neutra, sembra suggerire Levin. Non significa nulla. Fra i cittadini c’è di tutto, dall’operaio all’industriale miliardario. Il punto vero sono i rapporti fra classi e la lotta che questi generano. Ora come allora.
Esisteva/esiste una via americana per uscirne?
Citizens non è tradotto in italiano. Spero che qualche bravo editore possa prenderlo in considerazione. Parlando del libro, Ernest Hemingway disse: «Un bel romanzo americano, uno dei migliori che abbia mai letto».